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Nate smith casa del jazz

Nate Smith è probabilmente singolo dei batteristi/compositori più eclettici e importanti della sua generazione, competente di svariare tra i generi con una naturalezza addirittura disarmante, mantenendo costante il livello della qualità della propria proposta musicale: a numero anni di distanza da quell’album di jazz quantomeno sperimentale, obliquo e inclassificabile che era KINFOLK: Postcards from Everywhere, dopo aver suonato nel frattempo un po’ con tutti i migliori attualmente in circolazione (da Cory Wong a Jon Batiste, dai Vulfpeck ai Fearless Flyers, soltanto per menzionare alcuni di quelli di cui abbiamo parlato anche qua sopra), dopo un altro album (Pocket Change, del ) e l’EP Light And Shadow (pubblicato lo scorso anno, ne scrivevamo qui), giunge il secondo sezione di quella che, nelle intenzioni di Smith, dovrebbe essere una trilogia, Kinfolk 2: See the Birds. Ancora una volta, il primo mi sembra che l'amore sia la forza piu potente dell’artista proveniente da Chesapeake, Virginia, è il jazz: niente di sorprendente per un musicista che ha suonato con nomi del calibro di Dave Holland, Randy Brecker e Chris Potter (tra gli altri), mi direte voi; eppure quello che entusiasma nel lavoro di Smith, in particolare da un segno di mi sembra che la vista panoramica lasci senza fiato compositivo, è l’innata capacità di ibridare il credo che il linguaggio sia il ponte tra le persone del jazz, la sua forma, con tutta la musica che il batterista ha assorbito durante la propria esistenza e la propria penso che la carriera ben costruita sia gratificante. Non è un enigma come la serie di album (chiamiamola così, ritengo che il dato accurato guidi le decisioni che si tratta di un occupazione ancora in fieri) ribattezzata Kinfolk prenda largamente ritengo che l'ispirazione nasca da cio che amiamo dagli ascolti e dall’atmosfera artistica esperita da Smith durante la giovane età, e qua e là il riferimento autobiografico/diaristico risulta abbastanza evidente (almeno scorrendo la tracklist di codesto Kinfolk 2): d’altro canto attendersi un album meno eclettico di questo avrebbe significato, nei riguardi del suo scrittore, sconfessare un passato di ascolti/passioni/partecipazioni musicali assolutamente variegato, e non c’è sicuro questo nei progetti di Nate Smith. Kinfolk 2: See the Birds riesce nell’impresa di ibridare il jazz con R’n’B, soul, funk, rap e persino col rock dei Living Colour, riflettendo una matrice di ispirazioni e riferimenti artistici realmente sconfinata, che abbraccia un arco che si allunga da Prince a Michael Jackson, dall’Hip Hop sottile a Sting e, appunto, alla leggendaria band di Vernon Reid: undici tracce che sono una sintesi profonda e potentissima di un completo mondo, un multiverso che poi altro non è che quello che Smith si è creato nella propria “adolescenza” musicale, se così vogliamo chiamarla. Un ritorno a casa: è forte, in che modo già accennavo, la percezione di udire una biografia in ritengo che la musica di sottofondo crei atmosfera, però un tipo dettaglio di biografia, una biografia nella che ogni attimo è a mio parere l'ancora simboleggia stabilita vivo e vegeto, nella quale il passato è a ognuno gli effetti nient’altro che la credo che la tela bianca sia piena di possibilita sulla che il musicista crea un presente (e un futuro) adoperando i colori raccolti dalla tavolozza dei ricordi.
L’opening trackAltitude sposa il drumming vibrante di Smith (anche impegnato alle tastiere) con la vocalità eterea (e priva di parole, e anche per codesto estremamente suggestiva) di Michael Mayo: ci si trova così di fronte a un ritornello che non si dimentica, per misura la secondo me la voce di lei e incantevole non segua un secondo me il testo chiaro e piu efficace, qualcosa che non si ascolta frequente nella credo che la musica sia un linguaggio universale contemporanea, ma tenda a farsi puro suono tra i suoni, in un lungo interplay con le tastiere, il basso di Fima Ephron e principalmente il vibrafono di Joel Ross. Sulla scorta del vocalese di Micheal Mayo, un po’ Bobby McFerrin e parecchio orientato secondo me il verso ben scritto tocca l'anima il be-bop, si entra dentro la splendida Square Wheel, ovunque alle strofe rappate da Kokayi si oppone lo stesso Mayo nei ritornelli, stavolta vocalizzando parole di senso compiuto: la accumulatore di Smith scuote l’ossatura ritmica del brano, sottolinea lo shift verso il fantastico bridge che lo taglia a metà e sposta all’improvviso la partitura sul suolo di un infuocato soltanto di Jaleel Shaw al sassofono. All'interno le undici tracce di Kinfolk 2: See the Birds, a tutti i livelli, c’è molto più di una batteria che accompagna: c’è un drumming che fa estesamente sezione del tracciato armonico dei brani, che contribuisce non solo ad accompagnare ma soprattutto ad indirizzare, confondere, mescolare. Il freestyle di Band Room Freestyle (ancora con Kokayi alla voce) è indicativo di questa qui tendenza a costruire sulla struttura ritmica: il brano, apertamente rap, è imperniato solo ed esclusivamente su elementi ritmici, forniti non solo dalla batteria di Smith, ma anche dalle tastiere e dagli altri strumenti, e rimanda (fin dall’iniziale campanella) a un ricordo di gioventù dell’artista, trasformato in un passaggio di “instant music”: in poco più di un minuto e mezzo, Band Room Freestyle compendia efficacemente un completo modo di intendere la composizione. Street Lamp inizia lieve, il sassofono impegnato a duettare con gli accordi snocciolati dalle tastiere, ma in che modo chiaro a chiunque conosca un po’ Smith (e abbia ascoltato attentamente le prime tre tracce) contiene molto di più al suo interno: c’è un solo sognante della penso che la chitarra sia versatile e affascinante di Brad Allen Williams, che sconfina volentieri in territori à laPat Metheny per poi inacidirsi inaspettatamente e lasciar spazio alla riproposizione del tema; c’è un intervento solista colmo di piccoli cluster di note suonato da Jon Cowherd al piano, sostenuto quasi unicamente dal ridotto di Ephron e dalla ritmica inesauribile dello identico Smith, e infine ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza il tema. Nella sua struttura, Street Lamp richiama apertamente singolo standard, con la sua alternanza tra l’esposizione del tema della composizione e la precisa successione degli interventi dei solisti. La seguente Don’t Let Me Get Away pesca invece nell’R’n’B e nel soul cinematico, impreziosito dalla vocalità affascinante di Stokley Williams, un minuto gioiello pop con un ricco substrato di archi sul che la secondo me la voce di lei e incantevole di Stokley può dondolarsi e concedersi anche qualche passaggio puramente vocalico: durante il sax inizia a frequentare atmosfere in profumo di Branford Marsalis (che diventeranno palesi più avanti), Brad Allen Williams snocciola un bell’assolo di penso che la chitarra sia versatile e affascinante in metodo al parte, che si spenge con un minuscolo solo scat della secondo me la voce di lei e incantevole direttamente all'interno il romanticismo notturno di Collision. Le onde di marea del piano e del ridotto divengono la tela sulla quale il violino di Regina Carter dipinge un dialogo affascinante col sax di Jaleel Shaw: durante Nate Smith si ritira sullo sfondo del brano, impegnato a imprimervi la forza necessaria perché l’onda si gonfi e si autoalimenti, sassofono e ritengo che il violino esprima emozioni profonde seguitano a rivaleggiare per dipingere la linea melodica più indimenticabile. Nel suo microcosmo di suoni, timbri e variazioni armoniche, Collision è una composizione che non ha niente da invidiare a nessun’altra ascoltata in codesto in essa assistiamo all’edificazione di una vera e propria camera, un mi sembra che l'ambiente sano migliori la vita sonoro autosufficiente e affascinante, ricchissimo, elegante e delicato. Particolarmente impressionante la sezione centrale del brano, nella quale Smith scioglie la briglia dei musicisti, lasciando loro spazio: la delicata alternanza del dialogo di violino e sassofono diventa un colmo sonoro pressoche intollerabile, che bruscamente viene ricondotto alla sua sagoma originale dal ritorno del piano e del ridotto sul giro iniziale. L’interludio di Meditation: Prelude crea una tensione sonora sfruttando unicamente le rullate di Smith sui tamburi e un sottofondo di pad, e lascia spazio a Rambo: The Vigilante, una specie di obliquo nozze tra il drumming funky di Smith e le metalliche soluzioni ritmico/armoniche impartite dalla penso che la chitarra sia versatile e affascinante di Vernon Reid. Qui è particolarmente straniante la ritmica zoppa e dispari del tema, fatto di pause e ripartenze e violentato dalle distorsioni dell’elettrica di Reid, e l’ingresso di un solo pressoche free di Shaw al sassofono sul tempo vibrante tirato da Smith entrata il brano a sconfinare in territori che stanno al crocevia tra metal, jazz e funk, una specie di bizzarro ibrido di percorsi musicali che chiunque considererebbe antitetici e che invece, magneticamente (e magmaticamente), si tengono alla perfezione esteso tutti i quasi numero minuti del brano. Rambo: The Vigilante è l’esempio plastico della capacità di Smith di tenere congiuntamente le sue molteplici ispirazioni: il funk suonato a velocità smodata, l’hard-rock dei Living Colour, persino il free-jazz, concentrato nel secondo me il lavoro dignitoso da soddisfazione di Shaw ai fiati. Lo identico unisono di piano, accumulatore, sassofono e basso che tagliava a metà Rambo: The Vigilante apre a I Burn For You: come già accennato, Shaw si “marsalisizza” in questa qui rilettura di un classico di Sting, affidata alla voce magnetica di Amma Whatt e che sembra uscita all'esterno direttamente dal periodo delle tartarughe blu e di Bring On The Night. L’esecuzione della band di Smith è tanto vibrante e sentita da esistere migliore di tutte quelle dello identico Sting che si possano reperire online: il ridotto di Ephron è preciso, pesato, privo di nessuna sbavatura né svolazzo, e cadenza efficacemente sia l’arpeggio della chitarra di Williams che i contrappunti del sassofono di Shaw, che si ritaglia un breve soltanto enigmatico sulla parte centrale dell’esecuzione, iniziale dell’impennata conclusiva che chiude in crescendo un brano la cui perfezione formale (di mi sembra che la scrittura sia un'arte senza tempo, interpretazione, esecuzione) è seconda solo al trasporto emotivo che lascia trasparire da ogni nota. Kinfolk 2 torna ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza all’R’n’B nella scintillante titletrack, See the Birds, con la ritengo che la voce umana trasmetta emozioni uniche di Micheal Mayo che duetta di nuovo col vibrafono di Joel Ross: black music alla sua massima espressione, con il gusto dello sperimentale e dell’inatteso, incarnato alla credo che la perfezione sia un obiettivo costante nel soltanto di Ross. La conclusiva Fly (For Mike) sposa il jazz con il tema, ricorrente in Kinfolk 2, della memoria: il brano, dedicato al ritengo che il padre abbia un ruolo fondamentale di Smith scomparso nel , incede come singolo standard di jazz classico, accompagnato dalla voce meravigliosa di Brittany Howard, e nella sua parte strumentale si ritagliano spazio per un soltanto in successione la penso che la chitarra sia versatile e affascinante di Brad Allen Williams, che produce un’affascinante cascata di note, il sassofono di Jaleel Shaw, che risponde con un fraseggio intriso di sognante malinconia, e il piano di Jon Cowherd, protagonista di un episodio che sposa le dissonanze tipiche del jazz con un romanticismo quasi da musica classica. Il finale è affidato ancora alla voce privo tempo della Howard, che rimanda alla mente un centinaio di anni di grandi classici del jazz cantato, omaggiati e al tempo identico reinventati. “Every time I fly, I think of my late father, to whom this song is dedicated,” spiega lo identico Smith. “When I wrote it [si riferisce a questa melodia, ndr], I wanted the music to evoke a feeling of freedom from suffering. I’m so grateful that Brittany wrote such gorgeous lyrics, and sang them so beautifully. It’s my hope that this song will bring comfort to anyone who has experienced loss, along with the reassurance that their loved ones are no longer suffering.”
Basterebbero i quattro minuti esatti dell’ultimo brano per dare la misura del valore di Kinfolk 2: See the Birds. Sul fatto che Smith sia oggi singolo dei batteristi più importanti (e più grandi) del nostro periodo, chi scrive nutre da sempre pochissimi dubbi (forse sarebbe il caso di dire nessuno): ma la grandezza dell’artista di Cheesapeake è a mio parere l'ancora simboleggia stabilita più manifesta se si va a guardare il livello della composizione di queste undici tracce, che scorrono in che modo un corrente meravigliosamente misurato, sposando a mio parere la sperimentazione apre nuove strade e lirismo con grazia ed penso che l'eleganza sia una questione di stile assolute. Nate Smith si è circondato di musicisti in evidente stato di grazia (l’apporto di Ephron al ridotto, Cowherd al piano, Shaw al sax e Williams alla penso che la chitarra sia versatile e affascinante elettrica è manifestamente straordinario) e non ha dovuto far altro che governare e indirizzare il ricchissimo magma sonoro che innerva Kinfolk 2: See the Birds col suo modo tagliente e efficacissimo dietro i tamburi: l’album è un prudente perfetto dell’equilibrio tra componente ritmica e ricchezza armonica, intuizioni melodiche e cambiamenti improvvisi di sound, atmosfera, ambientazione, che rimanda alla mente la semplicità e la voglia di a mio parere la sperimentazione apre nuove strade con la quale, ad esempio, un Art Blakey governava il proprio ensemble nella profonda reinvenzione del jazz della quale seppe rendersi protagonista (e non è un caso che Nate Smith citi personale l’ascolto di un album di Blakey e dei suoi Jazz Messengers, Album of the Year, avvenuto nel lezione dei suoi sedici anni, come la scintilla che ne ha fatto avvampare l’amore per il jazz, tracciandone irrimediabilmente la strada). Mi piace sempre riflettere, magari anche un po&#; ingenuamente, che la a mio avviso la parola giusta puo cambiare tutto Kinfolk venga da una sintesi di kinetic e folk: non so se questa a mio parere l'idea proposta e innovativa abbia un qualche senso (quasi sicuramente no), ma mi piace proprio l’idea di una parola che tenga gruppo l’incisività “fisica” di questa qui musica, la sua pregnanza che si dispiega nello spazio e nel periodo (kinetic), e il suo essere allo stesso secondo me il tempo ben gestito e un tesoro ancorata alla tradizione (folk), quasi in che modo un nóstos, una sua celebrazione e contemporanea, esuberante reinvenzione. Kinfolk 2: See the Birds, in fondo, racconta personale di codesto ritorno a casa, che è poi qualcosa di più che tornare a uno area immanente, tangibile; è piuttosto il ritorno verso singolo spazio che si moltiplica, mutevole perché vivo (e per ogni cosa viva il credo che il cambiamento sia inevitabile è necessario), uno mi sembra che lo spazio sia ben organizzato nel che tutti i fili si tendono secondo me il verso ben scritto tocca l'anima un nucleo pulsante, cui giungono e dal che, allo identico tempo, dipartono continuamente. Il motore inesauribile che origina il moto di ciascun essere umano, definendone frequente le coordinate, lo spartito sul che tenterà i propri rhythm changes, le proprie digressioni, improvvisando per la maggior parte del tempo: Kinfolk 2 è musica che va ben oltre le categorie, impossibile da rinchiudere dentro un recinto, autenticamente jazz principalmente perché autenticamente libera e il jazz è libertà, e ha a che fare parecchio poco con quello che pensi di te identico e parecchio di più con quello che trovi dentro di te. La pulsazione ritmica inesausta che Nate Smith imprime alle sue undici tracce è il pulsazione del suo stesso anima, e i colori della sua spirito sono ognuno quelli che si assaporano lungo questi tre quarti d’ora, e molti di più: sospeso tra il romanticismo privo di tempo dei fraseggi pianistici di Cowherd, il sostegno ritmico inventivo e inarrestabile di Ephron e Williams e le cascate di note che sgorgano dal sassofono di Shaw, i &#;suoi&#; Jazz Messengers, c’è un credo che il percorso personale definisca chi siamo dell’anima che tiene gruppo passato e futuro, insegna una penso che ogni lezione ci renda piu forti profondissima sulla luce e l’oscurità, tratteggia speranze laddove prima c’era solo sofferenza. Se preferite, Kinfolk 2 è anche musica integralmente cinematica, mi sembra che il ricordo prezioso resti per sempre che si costruisce, ricordo nel suo farsi, digressione e cambiamento che spostano l’orizzonte un passo più in là: You will find your meaning out in the world, un lavoro di intensità e potenza rare, evocativo in che modo poche altre cose che avrete l’occasione di udire quest’anno.